Rossella Monaco: Tradurre il “Trimalcione” di F.S. Fitzgerald

da La poesia e lo spirito, intervista di Giovanni Agnoloni, 7 aprile 20144e7add4bb616f535bda226df5d456aa2

Rossella Monaco è la traduttrice di Trimalcione di Francis Scott Fitzgerald, edito da BUR in un volume che riporta anche la sua postfazione, mentre la prefazione è di Sara Antonelli, docente di Letteratura anglo-americana all’Università Roma Tre. Ho avuto il piacere di intervistarla.

 

1. Il tuo lavoro di traduzione su Trimalcione di Francis Scott Fitzgerald rivela una grande misura e una percezione della musicalità del testo. Come ti sei rapportata alla versione originaria del Grande Gatsby?

Come sappiamo, per F. Scott Fitzgerald la musica era molto importante. È stato più volte definito il “cantore dell’età del Jazz”, ma credo che le grandi orchestre, le ballerine dalle gonne corte che si agitavano negli shimmy o nei charlestonsignificassero per lui molto di più della superficiale appartenenza a un determinato periodo storico e della sua cronaca. I vestiti con le frange, pensati per accentuare il movimento, il continuo scintillio dei gioielli e dell’acciaio delle automobili, dei ponti, dei treni, degli elementi naturali, hanno un senso che va oltre il loro essere semplici oggetti per Fitzgerald, oltre il loro essere simbolo di un’epoca e della modernità.

Nel testo ci sono moltissimi riferimenti a questi luccichii. Mi vengono in mente “la luce del sole che filtrava in mezzo alle travi metalliche creando un costante sfarfallio sulle macchine in movimento” e le varie descrizioni del paesaggio dalle automobili e dal finestrino del treno. Nei loro movimenti immutabili e definiti, ritmati.
E c’è molto di più, ancora, perché il ritmo segue anche quello delle canzoni citate nel testo. E s’incarna nella scrittura, arriva sgusciando in ogni virgola, in ogni parola.
C’è un passo inedito nel Trimalcione, che invece non si trova nel Grande Gatsby, in cui si parla della musica jazz. Viene eseguito un brano: The Jazz History of the World di Vladimir Epstein. Nick, il narratore, afferma che si tratta di “roba senza pretese intellettuali” e che può solo limitarsi a “raccontarne”, facendo così un chiaro paragone tra la composizione musicale e i racconti con trama, con le loro armonie, disarmonie, interruzioni e i cambi di ritmo inaspettati.
Per Fitzgerald il jazz era stato qualcosa di frivolo e al tempo stesso istintivo, legato alle sue pulsioni e alle sue propensioni di scrittore meno razionali, al suo modo di vedere la vita anche attraverso la letteratura.
In fondo, le parole cosa sono, se non musica? Ogni scrittore trova la sua peculiarità nel proprio ritmo personale. Come non tenerne conto nella traduzione, dopo simili premesse?

 

2. Un’opera non molto diversa, nella forma, dal suo omologo finale e più noto. Tradurre è (stato) come scendere al cuore della creatività dell’autore, cogliendone la visione intima. Se non è mimesi, di cosa si tratta?

 

In realtà credo che sia il rapporto con il diverso da sé a definire l’uguaglianza, la mimesi. Chi traduce lo sa bene, perché in fondo il lavoro del traduttore è sempre un lavoro di mediazione tra due lingue, ma anche tra due culture e, a volte, tra due tempi molto diversi tra loro, per restituire qualcosa che sia almeno equivalente all’originale.
Questa estraneità credo sia un po’ il punto di partenza anche del lavoro dello scrittore. La capacità di mostrare uno sguardo “altro” sulle cose è peculiarità di chi scrive. Perché per autodefinirsi, trovare una forma precisa di se stessi, o almeno avvicinarcisi, bisogna confrontarsi con il diverso. Il rapporto con gli altri è prezioso per chi scrive, perché gli dona la consapevolezza, la sua arma più preziosa.
Ed è una consapevolezza che si acuisce anche nel rapporto tra l’editor e lo scrittore, di cui ho cercato di parlare nella postfazione al libro.

 

3. Mi ha colpito un’osservazione, nel saggio introduttivo di Sara Antonelli, che coglie, in controluce, una linea di continuità tra la stagione del modernismo e quella del postmodernismo. La scrittura di Fitzgerald, figlia della prima stagione, si caratterizza per una linearità e un respiro “classici” (penso per esempio alle righe finali di pag. 73: “Involontariamente gettai un’occhiata al mare – non c’era nulla da vedere tranne un’unica luce verde, piccola e lontana, che avrebbe potuto essere l’estremità di un molo. Quando guardai ancora una volta in direzione del signor Gatsby, se n’era andato, ed ero di nuovo solo nell’oscurità irrequieta”). Come rendere, in traduzione, la sua vicinanza a noi nonostante l’appartenenza a un tempo (storicamente e musicalmente) diverso?

 

Prima di tutto mi preme dire che l’introduzione di Sara Antonelli è molto ricca di rimandi culturali e di paralleli tra scrittori che fanno riflettere ancora più in profondità sull’opera di Fitzgerald.
Poi credo che in fondo Fitzgerald sia più vicino di quanto non si creda. Si è tornati a leggere Fitzgerald non solo perché è stato riportato sul grande schermoIl Grande Gatsby. Credo che il messaggio importante del Trimalcione e del suo libro gemello sia che i sogni che sembravano lì a portata di mano, una volta realizzati, si sono dimostrati essere “già alle spalle” e il mondo ora pare “infestato” da “visioni distorte”. Ci sembra soltanto di procedere, mentre invece continuiamo a navigare nel passato.
La letteratura di Fitzgerald è letteratura dell’eterno presente, in fin dei conti; lo era allora e lo è ancora oggi, anche se molte cose sono cambiate, anche nel modo di fare scrittura. C’è qualcosa che prescinde dalle categorizzazioni temporali e che fa sì che quest’opera possa essere definita “classico”.
Questo senza dubbio aiuta anche la traduzione, perché ci si può permettere di utilizzare procedimenti stranianti senza andare a intaccare il cuore duro dell’opera.
Ho cercato di restituire al testo la distanza storica dal presente, ad esempio, con l’uso del “voi” formale e con altre espressioni un po’ d’antan, con un uso della sintassi a volte arcaico.
Al tempo stesso, però, ho voluto fare i conti con il pubblico di riferimento di BUR, che si presume ampio e variegato, con interessi e orientamenti culturali anche molto diversi.
Il piacere della lettura, anche della musicalità del testo al di là dell’interesse letterario, andava mantenuto. Ecco perché ci sono poche note e l’apparato critico è molto ridotto e comprensibile, accattivante.
Si è ottenuto un doppio livello di lettura che, alla fine, è da sempre il segreto del successo letterario di Fitzgerald.

 

4. L’aggettivazione, in particolare, non è ricercata né sperimentale, ma semplice e rotonda, armoniosa. Eppure vi sono dei frammenti di inquietudine, sintomo della lungimiranza stilistica dell’autore (pag. 75: “La valle delle ceneri è delimitata su un lato da un fetido fiumiciattolo, e quando il ponte levatoio è alzato per far passare le barche, i passeggeri sui treni in attesa possono restare anche per mezzora a fissare quel cupo scenario. Lì c’è sempre un’attesa di almeno un minuto e fu per questo che ebbi modo d’incontrare per la prima volta l’amante di Tom Buchanan”). Come ti sei orientata, nella resa italiana, per restringere il campo del significante allo scopo di centrare il significato, soprattutto in passi di questo tenore?

 

È stato difficile, perché in Fitzgerald, come in tutti i grandi autori, la forma e il contenuto si mescolano tra loro e diventano indissolubili. E c’è di più: sono spesso parole polisemiche ,attinenti a campi semantici anche molto distanti. E nel passaggio dall’inglese all’italiano molti aspetti si possono perdere, perché sono lingue diverse dal punto di vista filologico.
La mia scelta generale è stata quella di non appiattire il linguaggio rendendo a tutti i costi scorrevole il testo. Né mi sono arroccata su posizioni difficilmente comprensibili ai più. Dove c’era ambiguità semantica, invece, l’ho mantenuta nei limiti delle possibilità della lingua italiana.
Faccio qualche esempio. La parola “inveterati” non viene comunemente utilizzata, eppure ho voluto mantenerla nell’incipit, per accogliere le volontà lessicali dell’autore e non tradire il ritmo. Anche perché dal contesto diviene comprensibile, e perché il lettore in fondo dovrebbe sempre un po’ arricchirsi a ogni nuovo libro. Sulla stessa linea di pensiero, la scelta di tradurre courtesy baysemplicemente con “baia di cortesia”: viste le dimensioni esigue, è una sorta di cortesia quella che le si concede definendola baia. Non è un’espressione comune, ma chi legge rimane incuriosito dal termine, così come succede al lettore inglese del testo.
Sull’ambiguità, nel capitolo III, Fitzgerald fa un paragone tra una donna adirata con suo marito e un diamantino (in inglese diamond snake o semplicementediamond). L’intera frase richiama il campo semantico del serpente. La donna “sibilava”, con continui “attacchi ai fianchi” del marito. Con il termine ambiguodiamond l’autore conferisce alla donna qualità positive di splendore e ricchezza, ma anche qualità negative legate all’aspetto più istintivo e subdolo del suo comportamento.
Sempre nel capitolo III, nella descrizione del banchetto del Trimalcione, compaiono tacchini “rosolati come per magia a color d’oro scuro”, in una formula grazie alla quale intendevo collegare, come l’autore fa nell’originale, la sfera semantica del cucinare (indorare il tacchino) con la suggestione di un pasto stregato, così sontuoso da sembrare il frutto di una magia.

 

5. Infine, una domanda di tenore più generale: quanto il traduttore è scrittore? E quanto lo sei stata, nel tradurre Fitzgerald?

 

Ho cercato di esserlo molto poco, per restituire la prosa di Fitzgerald al massimo della sua autenticità. Anche se inevitabilmente (qualcuno penserà che io stia per dire un’eresia) per rendere alcuni passi del testo ho dovuto calarmi nel profondo in alcune tecniche narrative e stilistiche utilizzate dall’autore e farle mie, capire come è arrivato a scegliere determinate parole piuttosto che altre. Penso ad esempio all’aggettivo “benestante” utilizzato nel Trimalcione da Nick per definire la sua famiglia, mentre la stessa parola nel Grande Gatsby diventa “influente”, alla luce della sopraggiunta necessità di dare maggiore affidabilità, anche morale, al narratore. Per un preciso scopo creativo e tecnico, dunque.
Nella traduzione ho dovuto calarmi nella parte dello scrittore, volgere questi meccanismi nella “creazione” di un testo italiano equivalente all’originale. In questo senso, il traduttore può a tutti gli effetti essere considerato uno scrittore, credo. Non esiste mai una traduzione che sia completamente “fedele”; si cerca sempre di avvicinarsi alla sua essenza, a qualcosa di interno che fa sì che l’originale sia quella cosa lì, crei quell’effetto piuttosto che un altro.
Capire le scelte dell’autore, giustificarle, identificarmici e al tempo stesso calarmi nel lavoro dell’editor è stata la parte più lunga e difficile del lavoro. Ho letto tutte le lettere di Perkins e Fitzgerald, ho riletto più volte anche Il Grande Gatsby, in originale e nelle sue diverse traduzioni italiane.
Il lavoro del traduttore e quello dello scrittore hanno entrambi un potenziale creativo, solo di natura diversa, che fa sì che alle parole si diano determinati significati.

 

6. Altri progetti di traduzione interessanti, in corso?

 

Lavoro sempre a diversi progetti in contemporanea. Attualmente sto traducendo un’opera di Dickens davvero stimolante. Sulla mia scrivania però ci sono sempre molti lavori iniziati, cui lascio il tempo di fermentare, quando non devo sottostare a precise scadenze, e di comunicare idealmente tra loro.

 

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