“ORA, ciò che voglio è, Fatti. Insegnate a questi ragazzi e ragazze nient’altro che Fatti. Fatti, solo Fatti, servono in questa vita. Non coltivate altro, e sradicate tutto il resto. Si può formare la mente degli animali razionali soltanto sui Fatti: nient’altro sarà loro di una qualche utilità. Questo è il principio in base al quale cresco i miei figli, e questo è il principio in base al quale cresco questi bambini. Attenetevi ai Fatti, signore!”
La scena era la volta spoglia, anonima, monotona di un’aula scolastica; l’indice squadrato dell’oratore enfatizzava le sue osservazioni, sottolineava ogni frase, tracciando una linea sulla manica del maestro. L’enfasi era rafforzata dal muro squadrato della fronte dell’oratore che aveva le sopracciglia come base, mentre gli occhi trovavano comodo scantinato in due scure caverne adombrate dal muro. L’enfasi era rafforzata dalla bocca dell’oratore, che era larga, sottile e rigida. L’enfasi era rafforzata dalla voce dell’oratore, che era inflessibile, secca e dittatoriale. L’enfasi era rafforzata dai capelli dell’oratore, dritti ai margini della sua testa pelata, una foresta di abeti, a proteggere la superficie lucida, tutta coperta di bozzi come la crosta di una torta di prugne, come se la testa avesse poco spazio per immagazzinare al suo interno tutti i solidi fatti.
Il portamento fermo dell’oratore, il cappotto squadrato, le gambe squadrate, le spalle squadrate – e persino il fazzoletto al collo, addestrato a prenderlo per la gola con una stretta affatto comoda, da fatto tenace qual era – tutto rafforzava l’enfasi.
“In questa vita, non servono che Fatti, signore; nient’altro che Fatti!”
(Traduzione di Rossella Monaco)