Quando ho proposto il tema del viaggio per questo numero di Just-Lit mi immaginavo interventi incentrati sul rapporto tra rappresentazione e movimento, forse qualche riferimento ai grandi reportage internazionali, ma pensavo anche ai social media e all’impatto che hanno avuto nel definire l’immaginario. D’altronde c’è chi viaggia ormai facendosi ispirare da un set fotografico, chi sceglie una meta per poterci apparire con in mano un cocktail o con quel sorriso consapevole di chi sa che cosa voglia dire davvero vivere (o, meglio, di chi millanta di saperlo).
Lo spostamento di massa, perché ormai di questo si tratta, dei turisti stagionali pone inoltre questioni sociali e politiche importanti come la presenza dei b&b nei centri storici, sempre meno vissuti dai locali e sempre più scenari per scatti e tour organizzati; la problematica degli affitti, delle risorse umane sottopagate in nero; il non sense di dover appiccare un’etichetta, un hashtag a un luogo per poterlo descrivere in maniera popolare. Nonostante un briciolo di sconforto, dentro di me so che questa democratizzazione del viaggio non è altro che un ripetersi uguale ma in dimensioni più estese di altre grandi «migrazioni» turistiche dei secoli passati, anch’esse spinte da un accresciuto benessere e da facilitazioni tecnologiche.
Leggendo le pagine dei nostri antenati non sembra tanto lontana l’attrazione suscitata dal diverso e dal movimento e nemmeno il modo per rendere «pubblica» questa attrazione. Per esempio, quando nell’Ottocento la ferrovia modificò il panorama e il modo di guardare delle persone, nacquero anche le prime guide turistiche. Conservo alcune copie di queste pubblicazioni sulla mia scrivania ormai da diversi anni e mi sono chiesta, a momenti alterni, se non fosse il caso di tradurle e di proporle a qualche editore; poi editorialmente parlando, mi sono detta che non potevano avere un valore per il lettore di oggi: erano strumenti pensati per il loro tempo, pratici anche se contraddistinti da visioni romantiche (e quasi sempre stupefatte) dei paesaggi sfuggenti al di là del finestrino del treno. Uno sguardo che oggi può sembrare ingenuo ma è che figlio di una certa visione sociale. Lo stesso accade oggi con i reel su Instagram di viaggiatori impervi, che ovunque si trovino riescono a cercare una vista dall’alto, in apparenza semplice da raggiungere ma proibitiva per chiunque non sia abituato a scalare montagne (o al contrario facile da visitare ma resa in fotografia come se fosse la vetta dell’Himalaya). Mi chiedo: nel 2100, se non saremo estinti, a fronte del fatto che questo tipo di viste dall’alto potrebbe essere inflazionato, chi penserebbe mai di pubblicare su un fantomatico social o su una pubblicazione digitale o a stampa una fotografia e una frase come quelle che vediamo oggi?
Forse viaggio troppo in là con l’immaginazione, il che spiegherebbe tra l’altro il mio innato amore per gli spostamenti, fin quando da bambina passavo ore a guardare il cielo di notte, distesa nei sedili posteriori di un’auto che da Bergamo mi portava dai parenti, a Boscoreale, un paesino alle pendici del Vesuvio, come per un incantesimo fatato.
Il punto è che quello che spinge le persone a viaggiare è la stessa forza che spinge l’uomo a vivere: alla base c’è un sentimento di riconoscimento e differenza, quella voglia di definire le cose e definirsi, in una frequenza di uguale e diverso, che diventa, alla fine, l’unico modo per conoscere e conoscersi davvero (se è poi questo lo scopo della vita). Vale per i viaggiatori della ferrovia ottocenteschi così come per il ragazzino che su Instagram si fa affascinare dall’influencer di viaggio di turno: cerchiamo qualcosa che non ci appartiene e poi quando l’abbiamo assimilato, è diventato uguale a noi, cerchiamo qualcos’altro e qualcos’altro ancora. La differenza la fa l’usa e getta: quanto cioè siamo disposti a conservare e quanto diventa la semplice soddisfazione di un bisogno estemporaneo, come avviene per la serotonina scatenata da una folle corsa su un treno veloce, da un like sui social o per ogni nuovo timbro accumulato su un passaporto.
Questo esercizio esistenziale legato al viaggio non è più soltanto appannaggio dei più facoltosi – anche se viaggiare rimane, nel 2023, un privilegio cui solo una piccola parte della popolazione mondiale può dedicarsi. Diventa un modo di vivere diffuso e dunque pecca di mancanza di originalità il più delle volte oppure soffre dell’invidia altrui in un senso e nell’altro. Eppure rimane un meccanismo affascinante che tanto ha da dirci sul nostro scopo, nonostante i fiumi di parole e di fotografie, i maremoti di pensieri e di video.
Certo che i social e il viaggio così come lo intendiamo oggi nella maggior parte del mondo occidentale vogliono dire anche per i locali di alcune zone della Terra non potersi permettere la spiaggia con i lettini, per fare il paradiso dell’americano ricco (o dell’italiano ricco) che pensa di essere stato in un posto perché è stato in quattro metri per tre di spiaggetta e magari si lamenta pure delle infrastrutture e della pulizia. Può capitare in Messico, in Thailandia, davanti alle coste delle Maldive. Ci si chiede perché in tali eden terrestri una bottiglia di plastica galleggi a rovinarci una fotografia o perché il sargasso unito alla spazzatura portata dal mare ci impedisca di fare il bagno in un’acqua che altrimenti sarebbe da abbaglio. Quando si comincia ad affrontare il mondo in maniera più consapevole, con l’emozione di sapere di essere privilegiati e l’umiltà di comprendere le contraddizioni pur rinunciando alla bellezza, si capisce che l’inquinamento non è soltanto un tema di attualità di cui si parla a scuola o sui giornali, è una lama che incombe sulle teste di milioni di persone che non hanno letteralmente spazio per mettere un letto e dormire, che non possono godere dei frutti della terra perché velenosi, che preferiscono, anche meschinamente, in certi casi, sfruttare le ricchezze già accumulate nei tasconi di qualche pantaloncino teutonico in anni di ingiustizie sociali e comunicative.
Ogni nuovo viaggio presuppone il doversi scontrare con un passato o con un concetto precostituito, un qualcosa che c’era prima e che mi accorgo in seguito essere stato soltanto un fantasma nella mente. E sulla pelle. Non c’è nulla di peggio di un’idea che va a fondersi nella carne, e che poi ti viene strappata via dalla pinza chirurgica della realtà, ma la letteratura fa questo: ti disegna un mondo reale o immaginato e poi ti opera a cuore aperto per mostrarti qualcosa che è fatto di carne e ossa, che vive e che scalpita per essere visto e riconosciuto e che di volta in volta potresti decidere di nascondere o di esaltare anche agli occhi degli altri.
Pensando ai viaggi posso suddividere la mia vita pressappoco in tre grandi aree: la prima, dall’infanzia all’età adolescenziale, caratterizzata da un «ritorno vicario» in cui ogni estate e ogni vacanza di Natale, mi ricongiungevo alle origini rivivendo l’esperienza di distacco dei miei genitori, emigrati dal sud Italia nel 1985, attraverso i loro occhi e la loro volontà; la seconda, dall’età adolescenziale fino ai miei trentadue anni, in cui ho viaggiato in lungo e in largo ma sempre verso mete tutto sommato vicine, per chilometri e per orizzonti, una sorta di «esplorazione sicura» del diverso, di ricerca dell’ignoto in luoghi che gran parte sentivo già di conoscere; la terza (chissà quante ancora me ne aspettano), che definisco di «totale abbandono», verso mete lontane e diversissime dai miei paesaggi abituali, alla disperata ricerca di un equilibrio tra paure e felicità. La violenza del distacco e del viaggio si è fatta negli anni sempre più intensa, per quel che mi riguarda, nel bene e nel male, ma la gradualità da un nido di sicurezze e vicariato a una folle corsa verso l’ignoto mi ha aiutata forse a darmi degli strumenti più solidi, a darmi il tempo di conoscermi prima di partire. E poi di disfarmi, una volta arrivata, per conoscermi (forse) ancora più a fondo o capire che non ci si conosce mai davvero. C’è stato un momento in cui ho persino creduto che i libri potessero bastare a raccontarmi tutto, che una descrizione ben fatta, che le più belle pagine di un autore sulla via di Damasco potessero essere persino più intense di un vero viaggio: ma di recente ho capito che non è così. Non c’è nulla di vero nelle parole di un libro finché non le hai plasmate tu stesso sul campo, finché non hai visto con i tuoi occhi e «sentito addosso».
Instagram e i libri, neanche i più belli, potranno mai darti la stessa emozione della vita reale, quella che sta dentro agli occhi di un maya dello Yucatan, fatti di giungla, orgoglio e scaltrezza, o di un cittadino di Malé, pieni di mare e di stagioni, di grandi esseri sottomarini e scarse risorse. Niente potrà mai superare un odore o una parola detta da un nativo con un accento locale, le mani di una donna che battono il tempo per racimolare qualche soldo in mezzo alla strada; niente riuscirà a spiegare l’arroganza dell’uomo che spende convinto di essere superiore, perché la sua etnia ha creduto di poter decidere quali sono i veri valori umani, e poi chiude un occhio quando una morte «giusta» bussa alla sua porta.
Come le radici di un albero, che si estendono nell’oscurità della terra, così il nostro essere si nutre della vita e della morte, della luce e dell’ombra, della gioia e della sofferenza. Accade in viaggio come a casa, soltanto che il viaggio è come un motore di riflessione. Se ti muovi non sei fermo, né fuori né dentro. Il ciclo della vita, e con esso la morte, sono parte integrante del cammino. Il viaggio-vita andrebbe vissuto con gratitudine e nutrito, come fanno le madri con i loro figli, in maniera disinteressata, facendo spazio dentro di sé, lasciandosi trasportare dalle maree ormonali e d’istinto, ma molto spesso non ne siamo capaci, il nostro orizzonte è egoistico, auto-rappresentativo. Sia che siamo viaggiatori «veri», sia che ci definiamo «turisti», sia quando cerchiamo il resort all inclusive, sia quando dormiamo in qualche bivacco sulle strade polverose del Nepal. Non fa tanto la differenza dove sei, ma chi sei durante il percorso. Devi geolocalizzarti per provare a darti una direzione.
Di recente ho scoperto che in una donna incinta alcune cellule del feto migrano nel corpo della madre, colonizzando gli organi, il cervello, il cuore, il midollo spinale: sono parti «estranee» che si muovono e si insediano per essere accettate. Fin dalla quarta-quinta settimana si organizzano in «gruppi». Più tardi, capita che alcune di queste stesse cellule stabiliscono connessioni a livello neuronale con la genitrice. Altri studi dovranno approfondire il processo che pare essere presente in tutti i mammiferi. A livello filosofico, si tratta di una fusione ospitale, interiore, del diverso. E mi chiedo se questo non accada anche in altri ambiti di «generazione» che sia a livello chimico-fisico o soltanto su un piano simbolico. In fondo non siamo altro che cellule e energia, legati a una Terra che chiamiamo, fin dai tempi antichi, «madre».
Ecco perché quando guardo il mare o cammino per le strade di una città in cui non sono mai stata, nonostante oggi pare non esserci più spazio per l’esplorazione in questo mondo, quasi del tutto calpestato, sento comunque di essere parte di un grande mistero, di un’infinita rete di relazioni che si estende oltre i confini del mio corpo e della mia mente, sulle cose e dentro alle persone. E io sono grata per questo dono, per la possibilità di vivere e viaggiare, e condividere con gli altri questa consapevolezza. Perché non a tutti è concesso.
